Sicurezza, privacy e il dilemma della prova
Nelle città italiane la videosorveglianza urbana è ormai una presenza costante: le telecamere, installate agli incroci, nelle piazze e lungo le strade, sono pensate per garantire sicurezza, prevenire reati e monitorare il territorio.
Tuttavia, quando un cittadino coinvolto in un incidente stradale cerca di accedere ai filmati che potrebbero scagionarlo, può scoprire che quelle stesse telecamere che “tutto vedono” non hanno più nulla da mostrare.
Il motivo non è un guasto tecnico né una scelta arbitraria dell’amministrazione, ma il rispetto delle regole sulla privacy: il GDPR impone la conservazione solo temporanea delle immagini, che vengono poi automaticamente cancellate, spesso dopo pochi giorni.
Questo scenario, apparentemente paradossale, è stato oggetto di recenti sentenze che hanno fissato un principio generale: se il cittadino non presenta una tempestiva e formale istanza di accesso agli atti amministrativi, il diritto di ottenere i filmati cede di fronte all’obbligo di cancellazione automatica imposto dalla normativa sulla privacy.
Una prova perduta
Il 20 dicembre 2021, a Bergamo, si verifica un incidente stradale a un incrocio. Una donna, alla guida di un’auto prestatale da un conoscente, viene urtata da un altro veicolo che, secondo la sua versione, avrebbe attraversato l’intersezione con il semaforo rosso.
Nessuno riporta lesioni e le parti compilano il modulo CID, ma la circostanza del semaforo rosso non viene annotata.
Il giorno dopo, la conducente si reca dalla Polizia Locale chiedendo di visionare le immagini delle telecamere per dimostrare la responsabilità dell’altro conducente. La richiesta viene verbalizzata, ma non viene avviata alcuna procedura formale di acquisizione dei filmati (nella “Relazione incidente stradale” così si legge: “Mi sono quindi rivolta alla Polizia Locale affinché acceda alle immagini della videosorveglianza al fine di accertare la responsabilità della controparte che negava di essere transitata sull’intersezione di L. go -OMISSIS B- malgrado il semaforo gli vietasse il passaggio”).
Nel frattempo, l’assicurazione liquida solo una parte del danno, lasciando la conducente esposta a richieste risarcitorie da parte del proprietario dell’auto.
Cinque mesi dopo, pertanto, la donna presenta una formale istanza di accesso ai sensi della legge 241/1990, chiedendo i filmati dell’incidente, ma il Comune risponde che le immagini non esistono più, essendo state cancellate automaticamente quattro giorni dopo il sinistro, perché così previsto dal regolamento comunale.
Il diritto di accesso e i suoi limiti
Il TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, sez. II, con la sentenza del 29 luglio 2024, n. 671, respinge il ricorso della conducente, affermando la piena legittimità della condotta del Comune. Le immagini della videosorveglianza sono considerate a tutti gli effetti “documenti amministrativi” e quindi accessibili, ma solo se la richiesta è tempestiva e formale.
La richiesta informale fatta alla Polizia Locale non è sufficiente: manca dei requisiti previsti dalla legge e non obbliga l’amministrazione a conservare i filmati. Solo l’istanza formale, presentata però troppo tardi, avrebbe potuto attivare il diritto di accesso.
Il TAR sottolinea che la cancellazione automatica delle immagini è fondata sul principio di temporaneità della conservazione dei dati personali, sancito dal GDPR: i dati devono essere conservati solo per il tempo necessario al raggiungimento delle finalità per cui sono stati raccolti.
Nel caso di Bergamo, il regolamento prevede la conservazione per massimo cinque giorni. Decorso tale termine, le immagini vengono sovrascritte. Il diritto di accesso può essere esercitato solo finché l’amministrazione è obbligata a detenere i documenti richiesti.
Bilanciamento tra diritti
La sentenza del TAR viene confermata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 8472 del 31 ottobre 2025), che ribadisce: la tempestività dell’istanza è essenziale per bilanciare il diritto di difesa del cittadino e la tutela della privacy dei terzi. Se la richiesta arriva dopo la cancellazione automatica, l’amministrazione non ha alcuna responsabilità.
La privacy di tutti i soggetti ripresi dalle telecamere è tutelata dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dal GDPR. Il GDPR stabilisce i principi generali per il trattamento dei dati personali: liceità, trasparenza, limitazione della finalità, minimizzazione, esattezza, limitazione della conservazione, integrità e riservatezza.
Il principio di limitazione della conservazione è alla base della cancellazione automatica delle immagini. Le immagini raccolte possono contenere dati sensibili di persone estranee all’evento. Il Garante Privacy raccomanda la cancellazione dei dati raccolti tramite videosorveglianza dopo pochi giorni (tipicamente entro 7 giorni), salvo esigenze particolari. Conseguentemente, i Comuni disciplinano le finalità, l’ubicazione delle telecamere, i termini di conservazione (di solito 3-7 giorni), le modalità di accesso e le misure di sicurezza.
Sebbene nel caso di Bergamo il regolamento escludesse la ricostruzione dei sinistri senza lesioni tra le finalità della videosorveglianza, secondo la giustizia amministrativa il diritto di accesso difensivo prevale comunque (l’articolo 24 della Costituzione garantisce a tutti il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi): nel caso degli incidenti stradali, le videoregistrazioni possono rappresentare una prova decisiva, spesso l’unica in grado di ricostruire oggettivamente la dinamica dei fatti.
Tuttavia, il bilanciamento tra questi diritti viene affidato al criterio della tempestività: se la richiesta di accesso è presentata entro il termine di conservazione, prevale il diritto di difesa; se arriva dopo, prevale la tutela della privacy e l’amministrazione non è responsabile della perdita della prova.
Implicazioni pratiche: un diritto “a breve termine”
Le sentenze chiariscono che solo una richiesta formale e tempestiva può impedire la cancellazione automatica dei filmati. La richiesta informale alla Polizia Locale non basta: occorre una domanda scritta, con tutti i dati necessari, presentata entro pochi giorni dall’evento.
I regolamenti comunali prevedono in genere termini di conservazione molto brevi: da 3 a 7 giorni, raramente fino a 15-30 giorni per impianti dedicati alla sicurezza urbana. Questo significa che il cittadino ha pochissimo tempo per attivarsi.
Soluzioni operative e raccomandazioni
Alla luce delle pronunce adottate dalla giurisprudenza amministrativa, il consiglio per i cittadini è di:
- Agire subito: verificare la presenza di telecamere sul luogo dell’incidente, annotare posizione, data e ora.
- Presentare istanza formale entro 24-48 ore, specificando tutti i dati richiesti e chiedendo la conservazione cautelare dei filmati.
- Coinvolgere un legale per essere assistiti nella procedura.
Questioni aperte e prospettive future
Non di meno, l’auspicio è che i Comuni si adoperino per allungare i termini di conservazione, compatibilmente con il GDPR. Il GDPR lascia ai Comuni un certo margine nella fissazione dei termini di conservazione, che però dovrebbero essere ragionevoli rispetto alle finalità dichiarate. Un termine troppo breve rischia di vanificare la funzione probatoria della videosorveglianza.
Sarebbe opportuno che la Polizia Locale, ricevuta una richiesta informale, informasse il cittadino sulla necessità di formalizzare tempestivamente l’istanza. Del resto, se la Polizia Giudiziaria apre un procedimento penale, le immagini vengono conservate oltre il termine ordinario. Se la conservazione prolungata è prevista per l’autorità giudiziaria, sarebbe equo riconoscerla anche per le istanze difensive dei privati in sede civile.
Il Comune potrebbe essere responsabile solo se l’istanza è stata presentata tempestivamente, ma non è stata attivata la conservazione cautelare, o se i termini di conservazione sono irragionevolmente brevi.
Verso un nuovo equilibrio tra privacy e giustizia
Le sentenze analizzate delineano un quadro chiaro ma problematico: il diritto di accesso ai filmati esiste, ma è subordinato a termini talmente ristretti da renderne difficile l’esercizio effettivo. Il risultato è che la prova, pur esistendo, viene cancellata prima che il cittadino possa accedervi, non per una scelta discrezionale, ma per un automatismo imposto dalla “compliance” al GDPR.
È urgente un ripensamento del sistema, che coinvolga il legislatore, le amministrazioni locali, il Garante Privacy e la giurisprudenza, per garantire che la tutela della privacy non si traduca nella cancellazione dei diritti fondamentali. Solo attraverso trasparenza, flessibilità, ragionevolezza e proporzionalità sarà possibile superare il paradosso attuale e restituire alla videosorveglianza la sua funzione di strumento di giustizia e sicurezza.













